Domenico Cafarchia: “Il cibo che emoziona è la risorsa della Puglia”

“Il cibo pugliese è stato il mio social media.” Esordisce così Domenico Cafarchia nel tratteggiare la sua biografia professionale di trader ed esperto di enogastronomia internazionale. Un percorso iniziato da bambino quando seguiva suo padre e suo nonno, mediatori di prodotti alimentari, nelle trattative. Negli anni ’70 produttori e compratori si incontravano ancora nelle piazze dei paesi. E proprio nella piazza di Gioia del Colle, comune del barese che allora rivestiva un ruolo importante nella geografia politica della Puglia, Cafarchia imparava come si stabilisce il prezzo dell’uva da tavola, dell’uva da vino, delle farine, delle mandorle e di tutti quei prodotti della terra che poi il mediatore avrebbe venduto a sua volta ai più disparati acquirenti.

Il dizionario italiano non dispone, al momento, di un termine che definisca questo mestiere in tutte le sue sfaccettature. L’antica parola per descriverlo è sensale (da samsar arabo nei mercati). In inglese si parla genericamente di trader. Un lavoro fortemente radicato alla dimensione local, quella dei cibi e vini del territorio che promuove, ma proiettato in maniera inequivocabile verso un contesto global, quello del potenziale pubblico e del mercato. È un mestiere antico, che si è velocemente adeguato ai tempi, rispettandone gusti ed esigenze.

Cafarchia, come si chiama chi svolge il suo lavoro e perché è importante per la promozione del territorio, della Puglia in particolare?

Io sono un consulente commerciale ed esperto in enogastronomia. Lo sono diventato perché la mia famiglia, padre barese e madre trevigiana, è coinvolta nel settore del cibo e del bere da molte generazioni. Da sempre alleno ed educo il mio palato a riconoscere difetti ed equilibri del cibo. Per questo non fumo e bevo pochi alcolici perché queste abitudini possono alterare i sapori.

L’immagine della Puglia è arrivata all’estero grazie al volano dell’enogastronomia. Solo in un secondo momento sono stati apprezzati gli aspetti artistici e ambientali, poi ancora il clima, il ritmo più lento della quotidianità e il fascino selvaggio di alcuni nostri paesaggi. Quando ancora occorrevano quattro voli dalla Scozia per arrivare in Puglia, i manager scozzesi che venivano ad aprire birrerie da noi si innamoravano perdutamente della braciola al sugo. All’epoca, parliamo degli anni ottanta/primi novanta, non c’era stato ancora il recupero dei centri storici e molti siti, oggi valorizzati, vivevano nell’incuria e nell’immondizia.

Poi cosa è cambiato? C’è stata un’azione politica che ha contribuito a lanciare il marchio Puglia nel mercato del turismo enogastronomico internazionale?

A livello amministrativo i dieci anni di governo Vendola sono stati decisivi. È cambiata la filosofia, la visione del territorio, il modo di impiegare anche le risorse economiche facendone un investimento a lungo termine sulla cultura, compresa quella enogastronomica, e sul turismo. Poi sono nati i nuovi aeroporti: il nuovo terminal Karol Wojtila ha una aerostazione passeggeri dimensionata per 3,6 milioni di passeggeri all’anno. Questo ha reso la Puglia alla portata di tutti.

Nel frattempo in Italia avveniva un’altra rivoluzione culturale dei consumi: si passava dalla birreria, in voga negli anni precedenti e dove il cibo rappresentava solo il 10% dei consumi, all’osteria e quindi alla tutela del cibo locale. Quello che auspico per il futuro è uno snellimento della burocrazia legata alle attività del settore: i famosi codici ATECO, che in Italia sono molto più restrittivi dei corrispettivi esteri.

Lei è anche formatore e collabora con la Ritsumeikan University di Kyoto per l’organizzazione di stage nelle aziende pugliesi del settore alimentare. Come è nato questo sodalizio e come si sposano in cucina la cultura giapponese e quella italiana?

Ho conosciuto Masayoshi Ishida, esperto gourmet e fondatore di Slow Food Giappone, ad una fiera internazionale ed è nata una bella amicizia. Qualche anno fa lui ha istituito alla Ritsumeikan la prima cattedra di Gastronomia italiana e mi ha chiamato, quale esperto di materie prime, anche per organizzare tour virtuali nelle nostre aziende, soprattutto quelle che producono pane e latticini. Il punto di unione tra le due cucine è il pesce, fondamentale a Bari quanto a Kyoto. Tra gli sponsor della Ritsumeikan c’è anche Le Cordon Bleu, una delle migliori scuole di cucina al mondo, che sviluppa per i futuri chef una cultura basata proprio sulla conoscenza delle materie prime: si tratta di studiarne le caratteristiche per valutare quelle più adatte alle varie preparazioni. Ed è qui che entrano in gioco figure come la mia.

In collaborazione con una chef giapponese, Junko Ikuta, ho anche organizzato in Puglia qualche anno fa una master class su crudo barese e sushi.

Da circa dieci anni lei lavora anche come consulente per i tour operator: in pratica crea progetti su misura per il viaggio in Puglia. Cosa cerca il turista che viene da noi?

Le dico cosa non cerca: non il singolo monumento, non lo stabilimento balneare con gli ombrelloni tutti in fila, non la gita di gruppo e nemmeno il ristorante stellato. Chi viene in Puglia cerca l’esperienza della Puglia, il tempo, lento, della masseria, il cibo genuino contestualizzato nel luogo stesso in cui viene prodotto, il panzerotto mangiato per strada, i cavatelli mangiati alla tavola della signora Nunzia di Bari vecchia. Questo è più di una moda passeggera. Non passerà perché le emozioni rimangono nei ricordi e spingono a tornare.

Per Cafarchia l’ultima frontiera della promozione del cibo pugliese è l’home restaurant: poter gustare i piatti della tradizione a casa di chi li prepara e ne detiene i segreti. È un cerchio che si chiude, il punto di arrivo di una storia che dal dopoguerra, e quindi dalla fame, arriva ai locali dedicati come i pub, passa dalle osterie ai ristoranti e poi torna alle origini, alla cucina di famiglia.

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